COVID-19. Come gestire l’impossibilità sopravvenuta della prestazione. Ipotesi di impossibilità reciproca. Conservazione del contratto. >> Articolo in PDF
È noto come l’emergenza pandemiologica internazionale da COVID-19, che in Italia ha assunto numeri rilevanti, abbia determinato una paralisi dei traffici commerciali e dei servizi, dovuta alle varie decretazioni di urgenza, che hanno sostanzialmente stabilito il divieto di circolazione dei cittadini, se non per tassative motivazioni, e la sospensione di gran parte delle attività produttive e di servizi.
La paralisi dei traffici commerciali e di servizi ha causato, da parte degli operatori, l’impossibilità di far fronte alle obbligazioni contrattuali, come conseguenza delle restrizioni e dei divieti posti dalla decretazione d’urgenza.
Questa circostanza, in diritto, si chiama “sopravvenuta impossibilità della prestazione”.
Come è facile immaginare, sono molti i giuristi (e non solo) che in questi ultimi tempi hanno espresso le proprie apprezzabili opinioni sulle conseguenze giuridiche derivanti dalla sopravvenuta impossibilità della prestazione, a seguito dell’emergenza internazionale COVID-19.
Il presente contributo, peraltro, intende essere volutamente sintetico, limitando il più possibile l’analisi puntuale degli istituti giuridici coinvolti (analisi largamente reperibile altrove), intendendo invece offrire un punto di vista diverso da quelli maggiormente diffusi sul web e sui media.
In estrema sintesi, i più osservano che l’emergenza pandemiologica costituisca quel fatto imprevendibile che legittimi la qualificazione della impossibilità sopravvenuta della prestazione come fatto non imputabile a colui che deve eseguirla.
Difatti la non imputabilità dell’impossibilità della prestazione a colui che deve eseguirla, libera quest’ultimo da ogni responsabilità, tanto da non essere tenuto al risarcimento del danno nei confronti di colui il quale dovrebbe beneficiare di tale prestazione.
In base a ciò, l’obbligazione esistente tra le parti si estingue; ovvero colui il quale dovrebbe beneficiare della prestazione (divenuta ormai impossibile) non è tenuto ad effettuare la controprestazione (ad esempio il pagamento del servizio o del bene) ed avrebbe diritto altresì alla restituzione di quanto eventualmente già versato per prestazioni in tutto o in parte ricevute.
Tutto quanto sopra si fonda, sinteticamente, sugli artt. 1218, 1256, 1463 e 1464 del codice civile, i quali sanciscono puntualmente i presupposti ed i rimedi utilizzabili in caso di impossibilità sopravvenuta della prestazione (definitiva o temporanea; totale o parziale) per causa non imputabile a colui che deve eseguirla.
Inutile osservare che tale impostazione, seppure corretta, abbia come naturale conseguenza un certo favor creditoris, ovvero una tutela giuridica, economica e sociale a favore di colui il quale riceve la prestazione (bene o servizio), che è poi tenuto al pagamento.
Tuttavia, rimane totalmente vulnerabile l’altra parte, la quale, a causa dell’emergenza pandemiologica (la c.d. causa a lui non imputabile) perde di fatto il diritto a ricevere il pagamento, e quindi perde flussi di cassa, spesso a fronte di costi già patiti o in atto, necessari all’esecuzione di quella prestazione che è divenuta impossibile.
Ma siamo certi di guardare la questione da tutti i punti di vista? Facciamo un esempio.
Una società eroga servizi educativi privati, mediante contratti basati sul pagamento di rette mensili da parte dei propri clienti. È evidente che, a fronte della decretazione d’urgenza, l’istituto deve sospendere l’erogazione dei propri servizi e pertanto inizia a ricevere dai suoi clienti le diffide alla restituzione di quota parte delle rette mensili già versate, nonché la comunicazione di risoluzione dei contratti per impossibilità sopravvenuta; tutto ciò a fronte di costi annuali già innescati e pienamente operanti da parte dell’istituto (affitto, utenze, dipendenti, materiale didattico ed educativo, et cetera).
Ebbene, al fine di guardare le cose da un altro punto di vista, ci poniamo il seguente paradossale interrogativo: se l’istituto, anche in contrasto con le restrizioni di legge, riaprisse i battenti, al fine di seguitare ad offrire i propri servizi alla clientela, quest’ultima sarebbe nelle condizioni di poter usufruire delle prestazioni?
La risposta è evidentemente no. Le restrizioni governative impongono (anche) la possibilità di lasciare la propria abitazione solo in ipotesi tassativamente previste.
E pertanto anche per i clienti dell’istituto sarebbe impossibile potersi avvalere dei servizi educativi per i quali si sono contrattualmente impegnati.
Dunque, a parere di chi scrive, nella maggioranza dei casi, in cui si ritiene che l’emergenza pandemiologica determini sopravvenuta impossibilità della prestazione esclusivamente per colui che deve eseguirla (con le conseguenze del caso), in realtà vi sia una duplice impossibilità della prestazione, da ambo le parti (c.d. impossibilità di utilizzazione o fruizione della prestazione).
Pertanto lo scenario è il seguente: la parte che dovrebbe eseguire la prestazione è impossibilitata a seguito della decretazione d’urgenza, ma anche l’altra parte tenuta al pagamento non può fruire della prestazione (o a seguito della decretazione di urgenza o semplicemente perché teme l’esposizione al contagio).
È evidente che questa diversa impostazione non può assurgersi a regola generale, ma si ritiene che essa ben possa essere declinata in molte fattispecie concrete.
Vi è ancora un altro rilievo in relazione ai contratti ad esecuzione continuativa, periodica o differita, ai sensi dell’art. 1467 c.c. In questo tipo di contratti, quando l’esecuzione della prestazione è divenuta eccessivamente onerosa a causa di avvenimenti straordinari ed imprevedibili, la parte tenuta alla prestazione può domandare la risoluzione del contratto; mentre l’altra parte può evitarla offrendo di modificare equamente le condizioni del contratto.
Le conseguenze di quanto sopra dell’impatto pandemiologico sui rapporti contrattuali sono così sintetizzabili:
- verificare in concreto i presupposti per poter chiedere, alla parte impossibilitata ad effettuare la prestazione, la restituzione di quanto eventualmente già pagato, posto che chi ha pagato non avrebbe potuto in ogni caso fruire delle prestazioni;
- verificare in concreto la possibilità che anche la parte impossibilitata ad effettuare la prestazione possa chiedere la risoluzione del contratto (sul presupposto che anche la parte tenuta al pagamento sia impossibilitata a fruire della prestazione), come peraltro stabilito espressamente dalla Corte di Cassazione n. 26958/2007 e n. 18047/2018.
Infine, si ritiene particolarmente pregevole, al fine di contemperare gli interessi di entrambe le parti:
- valutare innanzitutto la durata concreta della fase di stallo (se definitiva o temporanea);
- valutare se sia possibile basare il rapporto contrattuale su prestazioni parziali o alternative, con conseguente revisione del prezzo;
- valutare la possibilità di un congelamento del rapporto contrattuale per un determinato periodo, durante il quale – ad esempio – una parte versa solamente una quota prezzo destinata a coprire almeno i costi sostenuti dall’altra parte, in vista di una reviviscenza in toto del rapporto contrattuale nei suoi termini originari.
In conclusione, si ritiene percorribile l’iniziativa da parte di colui che deve effettuare la prestazione ed è intitolato a ricevere il pagamento (motivato ovviamente alla prosecuzione del rapporto contrattuale) di rinegoziare il contratto, modificandolo nel prezzo, nella durata e nelle altre condizioni, anche in virtù dei principi di buona fede e di conservazione del contratto (artt. 1366, 1367 e 1375 c.c.) e di equità integrativa (art. 1374 c.c.). Un eventuale rifiuto assoluto ed ingiustificato dell’altra parte potrebbe essere ritenuto lesivo dei predetti principi.
Questa riflessione, che interessa i professionisti del diritto e dell’economia, riveste particolare importanza al fine di creare degli assetti giuridici, economici e sociali che consentano un giusto equilibrio ed un congruo contemperamento tra tutti gli operatori in fase di emergenza pandemiologica.
Milano, 15 aprile 2020.
Avv. Francesca Monica Cocco